Psicologia, Psicoterapia e Counseling 
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PSICONEWS: i neonati dei genitori separati soffrono meno se dormono in una sola casa

23/7/2013

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Diversi studi ci hanno insegnato che i bambini hanno il bisogno biologico innato di sentire la presenza fisica ed affettiva dei genitori.

Una ricerca condotta da Samantha Tornello della University of Virginia (pubblicata sul Journal of Marriage and Family)  ha indagato cosa succede quando i neonati entro un anno di età si trovano a dormire in case diverse a causa della separazione dei genitori.
I risultati hanno dimostrato che anche una sola notte a settimana trascorsa lontana dalla mamma rende il bebè molto più insicuro dell'affetto materno rispetto a neonati che dormono meno spesso fuori casa o che vedono i padri durante il giorno.Ciò non è stato osservato così chiaramente nei bambini tra 1 e 3 anni.

"La nostra ricerca evidenzia quanto sia importante per i neonati nel primo anno di vita poter fare affidamento sulla presenza costante e affidabile di un singolo genitore badante durante la notte e soprattutto non essere sottoposti a trasferimenti settimanali tra una casa e l'altra. Dai nostri risultati emerge che sia la madre sia il padre possono assumere il ruolo di genitore primario, l'elemento importante rilevato e' la costanza, il poter contare su una presenza affettiva quotidiana e stabile." 

L'insicurezza nell'attaccamento potrebbe essere predittiva di problematiche di adattamento tra i 3 e i 5 anni, ma non ci sono correlazioni dirette con difficoltà negli anni successivi.

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IL LIBRO SUL COMODINO: "Volevo essere una farfalla" di Michela Marzano

22/7/2013

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Autore: Michela Marzano

Titolo: Volevo essere una farfalla. Come l'anoressia mi ha insegnato a vivere

Editore: Mondadori Strade Blu


"In questo libro racconto la mia storia. Pensavo che non ne avrei mai parlato, ma col passare degli anni parlarne è diventata una necessità. Per mostrare chi sono e che cosa penso. Perché, forse, senza quella sofferenza non sarei diventata la persona che sono oggi. Probabilmente non avrei capito che la filosofia è soprattutto un modo per raccontare la finitezza e la gioia. Gli ossimori e le contraddizioni. Il coraggio immenso che ci vuole per smetterla di soffrire e la fragilità dell'amore che dà senso alla vita."
Michela Marzano è una filosofa e scrittrice molto affermata, protagonista della scena culturale parigina, dove è direttrice del Dipartimento di Scienze Sociali SHS – Sorbona dell' Université Paris Descartes.
In questo libro autobiografico racconta la sua storia di anoressica, sfidando anche la diffidenza di chi la circonda e teme che così facendo darà la sua sofferenza "privata" in pasto al grande pubblico, con ripercussioni sulla sua vita sociale.
Marzano ripercorre la storia della sua vita, attraverso infanzia, adolescenza ed età adulta vissute ricercando amore e aiuto. 
Il rapporto con i genitori è segnato da un senso di abbandono da parte della madre e dal desiderio di ottemperare alle altissime aspettative paterne. Michela deve essere sempre la più brava, preparata e brillante: miete successi a scuola prima e in ambito accademico poi.
Con il sintomo dell'anoressia riesce a esercitare il controllo su quella fame che la divora ( viene infatti sfatato il mito dell'anoressica inappetente), una fame di cibo e di amore. Il cibo viene conteggiato caloria per caloria, e l'amore ricercato spasmodicamente negli uomini che incontra nella sua vita.
L'autrice vuole essere leggera, proprio come una farfalla; la ricerca di questa perfezione le appesantisce l'esistenza ogni giorno di più.

Dopo un percorso terapeutico durato anni, e un profondo lavoro su se stessa, riesce a smettere di condannarsi. Nel momento stesso in cui inizia a d accettarsi per ciò che è, nei suoi difetti ed imperfezioni, trova finalmente la leggerezza.


Un libro consigliato senz'altro a chi vuole approfondire il discorso sull'anoressia, ma anche a chi si interessa di filosofia e dei legami mente-corpo.


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Depressione post-partum: parlarne, comprenderla, affrontarla

4/6/2013

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Di depressione post-partum si parla relativamente poco, tranne quando giunge sulle prime pagina della cronaca per qualche tragedia familiare o nella rubrica degli spettacoli per le dichiarazioni di qualche attrice famosa.

La nascita di un figlio porta con sé sentimenti contrastanti: da un lato la gioia per una nuova vita, dall’altro il disorientamento per il corpo che in pochi mesi cambia più volte e per lo stravolgimento dei ritmi e delle abitudini di vita che comunque l’arrivo di un bambino comporta. Questa tempesta di emozioni, legata anche ai cambiamenti ormonali tipici di questa fase, porta la mamma ad avvertire sensazioni di malessere che facilmente sfociano in crisi di pianto senza motivi apparenti, cambiamenti di tono emotivo e sbalzi di umore. La situazione generalmente si ristabilisce in poche settimane, ma fondamentale è l’appoggio e l’ascolto su cui la il partner, ma anche la rete di relazioni di cui è parte possono fare la differenza, aiutandola a non sentirsi sola.

Si parla di maternity blues ( "tristezza post-partum") per definire una sindrome benigna transitoria che si manifesta nelle prime 48h dopo il parto, e che si risolve spontaneamente nell'arco di una settimana. Colpisce circa il 70% delle donne,e di queste un 20% può sviluppare una depressione maggiore entro un anno dal parto, perciò è importante identificarla e monitorarla.
Si manifesta generalmente con:
  • sentimenti di inadeguatezza a svolgere il ruolo di madre;
  • labilità emotiva, disforia premestruale, ansia;
  • insonnia e calo ponderale.


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La depressione post-partum esordisce generalmente dopo 3-4 settimane dal parto e la sintomatologia aumenta con manifestazioni cliniche verso il 4-5 mese. In media, colpisce il 20% delle donne entro un anno dal parto.


Le cause  sono molteplici e coinvolgono fattori:
  • ormonali;
  • fisici (stanchezza,...);
  • psicologici (scarsa autostima...); 
  • sociali (giovane età, inesperienza, scarso sostegno,...);
  • cognitivi (aspettative irrealistiche sull'essere madre, sul bambino,...).

I sintomi possono essere di tipo:

  • depressivo: labilità emotiva, deflessione dell'umore, sentimenti di inadeguatezza, sentimenti di colpa, irritatibilità;
  • ansioso: ansia, stati di allarme, ansia fisica;
  • neurovegetativo:alterazioni del sonno,alterazioni dell'appetito,perdita di interesse in ciò che si fa;
  • relazionale madre-bambino: avvertire il bambino come "un peso",non riuscire a provare emozioni nei suoi riguardi, avere avversione, non voler restare con lui,sentirsi incapace, mancanza di concentrazione nei compiti di accudimento.

Prevenire e intervenire

Vi ricordiamo che parleremo di depressione post-partum il 17 giugno nel prossimo incontro di Io mamma
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È importante ricordare che una depressione post-partum non curata tende a cronicizzare, diminuendo nella madre le capacità di accudimento corretto e impedendo lo sviluppo di una relazione armonica con il nascituro. 
In un'ottica preventiva, aldilà delle cause fisiologiche che possono predisporre la donna , è possibile adottare delle strategie utili sul piano psicologico.
Ad esempio, per la neomamma può essere utile:
  • limitare i visitatori nei giorni del rientro a casa dopo il parto;
  • dormire nelle stesse ore in cui dorme il neonato;
  • seguire una dieta equilibrata che eviti eccessi e l'assunzione di bevande eccitanti;
  • sentirsi legittimate a chiedere aiuto;
  • rafforzare il legame con partner e figure di sostegno;
  • mantenere un atteggiamento realistico su di sè, sul bambino e sul contesto.



Partner e familiari possono dimostrare il loro sostegno alleviando gli impegni della neomamma per es. aiutando nei lavori domestici e in generale offrendo ascolto e supporto, senza sfociare nell'invadenza.


Quando i sintomi diventano allarmanti, persistono da più di due settimane, si manifestano più volte nell'arco della giornata e si ha la sensazione di poter fare del male a se stesse o al bambino, è importante rivolgersi a uno specialista.

A seconda del tipo e della gravità dei sintomi, le cure possono consistere:
  • in una psicoterapia;
  • nella partecipazione a gruppi terapeutici di donne che stanno vivendo la stessa sintomatologia;
  • nella prescrizione di farmaci ansiolitici e antidepressivi (sotto stretto controllo medico)

[Dati Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna]
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Psiconews: collegamenti tra disturbi mentali post-partum e violenza domestica.

1/6/2013

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Quasi quotidianamente le cronache ci mettono a conoscenza di nuovi episodi di violenze domestiche ai danni di donne e madri.
Uno studio condotto da Louise Howard del King's College di Londra  (pubblicato sulla rivista Plos Medicine) ha indagato la possibilità di correlazioni tra i disturbi mentali presenti in post-gravidanza e le violenze domestiche subite in gravidanza.
La tematica trattata era già stata oggetto di studi precedenti in passato, ma con numeri decisamente più ridotti; inoltre, i dati precedenti si riferivano soprattutto alla depressione post-partum. In questo studio, invece, sono stati considerati anche altri disturbi come l'ansia e il disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
I risultati suggeriscono che le donne con alti livelli di sintomi dei disturbi di salute mentale sopra citati hanno un'alta prevalenza e una maggiore probabilità di avere subito violenza domestica, sia durante la loro vita che durante la gravidanza. Tuttavia, questi risultati non significano che chi soffre di questi disturbi è necessariamente stata vittima di violenza; inoltre non sono state reperite ulteriori informazioni su altri disturbi, es. del comportamento alimentare.
Ad ogni modo, questo studio sottolinea l'importanza di approfondire meglio la storia passata e il presente della paziente che si rivolge presso i servizi di salute mentale nel periodo perinatale.


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IL LIBRO SUL COMODINO: "Ho smesso di piangere" di Veronica Pivetti

30/5/2013

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Autore: Veronica Pivetti

Titolo: Ho smesso di piangere. La mia odissea per uscire dalla depressione

Editore: Mondadori

Ci risiamo: l'ennesimo vip che racconta la sua "crociata" contro una qualche malattia, con paragrafi strappalacrime volti a suscitare la compassione del grande pubblico.
E invece no. 
Il libro di Veronica Pivetti è bel lontano da questo stereotipo.
Leggendolo, ci si potrebbe tranquillamente dimenticare che la protagonista appartiene al mondo dello spettacolo: è il racconto di una malattia, e non c'è denaro o popolarità che tenga. 

Tutto inizia con un ipertiroidismo curato in maniera poca corretta, che da il via a una serie di scompensi biologici che esitano in una depressione (c'è da dire che nel libro ci sono solo dei vaghi accenni alla vita familiare e relazionale della protagonista). 
La Pivetti nel suo libro ci ricorda che-come dice il proverbio- anche i ricchi piangono: il suo status di vip la porta davanti a degli specialisti più attenti a non sfigurare di fronte al personaggio famoso (uno di questi sentirà anche il bisogno di narrarle i suoi trascorsi teatrali) che alle reali necessità della paziente.
In questi 8 anni, Veronica continua a lavorare sul set senza confidarsi con nessuno: il mondo dello spettacolo ruota tutto intorno all'apparenza, e chi non soddisfa le aspettative viene escluso rapidamente dal giro: the show must go on.


Una testimonianza onesta, senza ipocrisie: così come vengono evidenziate le difficoltà con i medici, trovano posto anche gli aspetti più sgradevoli della malattia, dalla scarsa igiene alla trascuratezza del sè.
Un ruolo centrale è occupato da Giordana, la migliore amica di Veronica, e dal grande amore per gli animali. L'autoironia fa il resto, rendendo più lieve il tema trattato, senza mai banalizzare.
Lo stile scorrevole e senza pretese rendono questo libro adatto a tutti: a chi conosce l'argomento in prima persona, a chi vuole capirne di più, e anche a chi dovrebbe imparare a mettersi un po' di più nei panni dell'altro.

Il depresso è convinto che nessuno soffra quanto lui, e il guaio è che ha ragione. Su mille depressi ci sono mille sofferenze diverse e uniche al mondo, mille dolori indicibili e mille solitudini che nessuno potrà alleviare.
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L'elaborazione del lutto tra fasi e complicazioni

27/5/2013

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La perdita di una persona cara è indubbiamente una delle esperienze più dolorose da affrontare. L'elaborazione del lutto è quel processo mentale di riconoscimento e accettazione della di tale perdita.
Il lutto è influenzato da diversi fattori:  circostanze, modalità, relazione con la persona mancata, età... ad ogni modo, è possibile rintracciare una serie di fasi: il loro superamento è indice di una risoluzione positiva del lutto.

Bowlby teorizza un modello a 4 fasi:
  1. FASE DEL TORPORE: immediatamente successiva alla perdita, è contraddistinta dallo shock, dall'incredulità e dalla grande disperazione. Si vorrebbe poter fermare il tempo. Predomina la negazione, un meccanismo difensivo che protegge la persona da una realtà troppo dolorosa.
  2. FASE DELLO STRUGGIMENTO: predominano la rabbia e l'impotenza verso l'accaduto, il destino e/o la persona che è venuta a mancare. Il dolore psichico è avvertito in maniera acuta e struggente, insieme alla ricerca della persona morta, sotto forma di rievocazione e ricordi.
  3. FASE DELLA DISPERAZIONE: la disorganizzazione e la disperazione si accompagnano al ricordo continuo della persona scomparsa. Termina con la progressiva accettazione della realtà.
  4. FASE DELLA RIORGANIZZAZIONE: si torna alla vita, riprendendo a progettare e a investire sul futuro. Si abbandona la speranza che la persona morta possa tornare: la sua immagine viene interiorizzata, la vita ricomincia.

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Come precedentemente detto, l'elaborazione del lutto è di durata e complessità variabili.
Solitamente, nella sua fase acuta, si risolve entro 6-12 o anche 24 mesi (in caso di figure significative come genitori, figli, partner); ad ogni modo si tratta di un percorso fortemente soggettivo influenzato da variabili personali e sociali.
Spesso si accompagna a uno stato depressivo, che può aggravarsi sino a determinare una condizione di lutto complicato: il lutto non si è risolto nell'arco di un anno e si accompagna a sintomi psicopatologici.
Si parla invece di lutto traumatico quando l'evento scatenante è imprevisto è improvviso, generando un trauma tale da bloccare il processo di elaborazione.

In circostanze di lutti gravi, duraturi e pervasivi può essere utile intraprendere un percorso psicologico, a maggior ragione se sussistono fattori di rischio, come ad esempio l'assenza di un'adeguata rete sociale di sostegno.
Per l'elaborazione dei lutti traumatici può essere presa in considerazione anche l'ipotesi di un trattamento EMDR.



[C.L.]

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Psiconews: crisi economica e nuovi scenari, in aumento lo stress lavoro correlato

24/5/2013

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Complice il momento di crisi economica e lavorativa che il nostro Paese sta attraversando, si riscontra un aumento del livello di stress lavoro correlato, cioè la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste dell’ambiente lavorative eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste (definizione dell' European Agency for Safety and Health at Work).

Si discuterà di questo fenomeno in occasione del Convegno di Studi del Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi, il 30 maggio a Roma.
Riportiamo le dichiarazioni del Presidente, Dott.  Luigi Giuseppe Palma:

“I nuovi scenari del mondo del lavoro – imposti dalla crisi economica –rendono il tema della salute e del benessere nei luoghi lavoro un problema di sempre più grande rilevanza sociale che vede protagonista l’individuo in un contesto, come quello lavorativo, spesso causa, tra le altre, di disagi, di sensazioni di inadeguatezza, di timori legati a cambiamenti e ad innovazioni o all’ intensificarsi dei ritmi di lavoro”.
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Ricordiamo che il Decreto Legislativo del 9 aprile 2008 n.81, in materia di protezione dei lavoratori dai rischi obbliga il Datore di Lavoro a tutelare la sicurezza dei lavoratori anche per quanto riguarda lo stress lavoro-correlato, attraverso una valutazione (V-SLC). Tale valutazione non è di esclusiva competenza dello psicologo, basandosi su competenze che possono essere considerate trasversali a più personalità. Allo stesso tempo però, per l'utilizzo di strumenti psicodiagnostici propriamente detti, occorre necessariamente essere iscritti alla sezione A dell'Albo degli Psicologi e possedere quindi il titolo professionale di Psicologo. 

Per ulteriori informazioni e consulenze riguardo alla V-SLC, potete contattarci (rif. dott.ssa Starnotti).


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Parliamo di EMDR: che cos'è, a cosa serve, come funziona

15/4/2013

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L'EMDR - Eye Movement Desensitazion and Reprocessing (desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari)- è un approccio complesso e strutturato volto al trattamento delle esperienze di vita disturbanti e traumatiche.
L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità (Shapiro, 2003
EMDR. Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso movimenti oculari  , Ed. Astrolabio). Può essere inoltre utilizzato per alleviare i malesseri psicosomatici e l'ansia da prestazione; per rafforzare il senso di auto-efficacia in campo lavorativo, sportivo e performativo in generale.
La complessità di questo metodo fa sì che possa essere integrato all'interno del percorso psicoterapeutico, anche tra i diversi orientamenti c'è ormai un sostanziale riconoscimento della sua efficacia.
L'EMDR considera la patologia come un'informazione immagazzinata in modo non funzionale e si basa sull’ipotesi che ci sia una componente fisiologica in ogni disturbo o disagio psicologico. Quando avviene un evento ”traumatico” viene disturbato l’equilibrio eccitatorio/inibitorio  necessario per l’elaborazione dell’informazione, che rimane perciò "congelata" e inelaborata, dando origine a patologie e disturbi psicologici.

UN PO' DI STORIA
Come nelle più illustri scoperte scientifiche, è stato un episodio casuale a segnare l'inizio del metodo EMDR. Nel 1987, la psicologa Francine Shapiro scoprì che i suoi movimenti oculari volontari riducevano l'intensità di pensieri negativi disturbanti.  Da queste considerazioni la dr.ssa Shapiro svolse degli studi volti ad esaminare l'efficacia dell'EMDR nel trattamento di reduci del Vietnam traumatizzati, e di vittime di aggressioni sessuali: l'EMDR riduceva notevolmente i sintomi dei loro disturbi da stress post-traumatico (PTSD).
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COME FUNZIONA
Durante l'EMDR, il terapeuta individua con il paziente uno specifico trauma/evento disturbante. Attraverso un protocollo strutturato, viene richiesto al paziente di descrivere l'evento, focalizzandosi su un'immagine significativa. Il terapeuta guida il paziente nella descrizione dell’evento o dell’aspetto disfunzionale, chiedendo una descrizione gli elementi disturbanti importanti. Viene chiesto al paziente quali pensieri e convinzioni ha mentre richiama l’aspetto peggiore o più disturbante dell’evento. Il terapeuta aiuta l’elaborazione mediante movimenti guidati degli occhi, o altre stimolazioni bilaterali degli emisferi cerebrali.
Durante i set stimolazioni bilaterali, il paziente rivive vari elementi del ricordo iniziale o di altri ricordi. Il terapeuta interrompe i set ad intervalli regolari, per accertarsi che il paziente stia elaborando adeguatamente da solo. L’obiettivo è l’elaborazione rapida delle informazioni relative all'esperienza negativa da parte del paziente, fino ad una sua risoluzione adattiva.
Durante le sedute di EMDR il paziente può vivere emozioni intense, ma al termine della seduta, la maggior parte delle persone riferisce una notevole riduzione nel livello di disturbo associato all’esperienza traumatica. Questo è dovuto ad una riduzione della sintomatologia, ad un cambiamento delle convinzioni del paziente da vecchie negative nuove positive, ed alla prospettiva di una funzionalità ottimale.

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PER CONCLUDERE...
L'EMDR può collocarsi all'interno di un percorso terapeutico più ampio, come approfondimento di una certa tematica, o da solo come trattamento specifico.
Questo metodo ha un approccio globale, dal momento che si rivolge all'evento passato, al disturbo presente e ai pensieri desiderati per il futuro.
Durante l'EMDR il paziente rimane cosciente: non siamo quindi di fronte a una tecnica di ipnosi; non ci sono controindicazioni particolari: può essere fatto da chiunque sia in grado di affrontare un percorso psicoterapeutico.
Le esperienze traumatiche in cui si rivela efficace sono ad esempio:
-traumi subiti nell'età dello sviluppo;
-eventi stressanti nell'ambito delle esperienze comuni (lutti, malattie, crisi lavorative, difficoltà coniugali...)
-eventi stressanti al di fuori delle comuni esperienze umane come disastri naturali (terremoti, inondazioni...) o provocati dall'uomo (incidenti gravi, violenze, torture...)



Per ulteriori informazioni e per fissare un appuntamento per un trattamento EMDR presso il nostro Studio, visitate la nostra sezione Contatti.



Su YouTube è possibile visionare alcuni filmati, ve ne proponiamo due a livello esemplificativo.
Il primo - in inglese- è a cura dell'APA (American Psychological Association), e vede all'opera la Dr.ssa Francine Shapiro:


Il secondo video è un intervento televisivo dellla Dr.ssa  Bruna Maccarone, che parla del metodo evidenziandone caratteristiche ed efficacia:
Per una trattazione completa e ulteriori approfondimenti rinviamo al sito ufficiale di EMDR Italia.
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S.O.S. ansia da esame!!

18/2/2013

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UPDATE 31/05/13: stai per sostenere gli esami di maturità? QUI potrai scaricare #maturisenzansia, la nostra guida con 12 piccoli consigli per prepararti al meglio!
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In prossimità di un esame universitario (ma anche di un'interrogazione a scuola o un colloquio di lavoro) può capitare di avvertire ansia anticipatoria.
Come già sappiamo, l'ansia è un segnale di allerta inviato dal corpo, una risposta adattiva ai cambiamenti che la vita ci impone.
In questi casi, una piccola quantità d'ansia ha la funzione di una molla attivante, fornendo quel tanto di adrenalina funzionale al superamento di ostacoli, prove, esami; quindi ha effetto benefico.
Accade però che l'ansia diventi eccessiva, finendo con il prendere il sopravvento: i segnali provenienti dal corpo (palpitazioni, sudorazione, tremore...) diventano sempre più ingestibili. La mente comincia a incanalare negativamente le energie, prefigurandosi possibili scenari fallimentari: secondo il meccanismo della profezia che si autoavvera, cominciamo ad agire gli scenari che ci stiamo immaginando. Tutto sembra confermare il timore di non passare l'esame!
...come affrontare tutto questo?

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QUALCHE PICCOLO SUGGERIMENTO PRATICO
Nella maggior parte dei casi, le difficoltà provate in prossimità di un esame non riguardano strettamente le capacità cognitive- apprendimento, intelligenza, memoria- bensì le strategie usate nello studio e nella performance.
Vediamo quindi alcune strategie per migliorare il rendimento:

  • Ridimensiona l’importanza dell’esame : che peso riveste nella tua carriera universitaria? Ci saranno ulteriori appelli? Contestualizza.
  • Organizzati nello studio:  stendi una "tabella di marcia", identifica le priorità, investi adeguatamente il tuo tempo.
  • Prenditi dei momenti di pausa rigenerante : non affaticarti inutilmente, altrimenti il tuo cervello sarà meno recettivo agli stimoli e potresti non apprendere adeguatamente, finendo per sprecare il tuo tempo.
  • Organizza un gruppo di studio: alterna i momenti di studio individuale al ripasso di gruppo, dividerete l'ansia e avrete modo di confrontarvi sul programma d'esame.
  • Sostituisci i pensieri negativi con affermazioni positive: al posto di "non ce la farò" inizia a dirti "posso farcela". Il pensiero positivo è energizzante.
  • Non ripassare all’ultimo momento: genera soltanto confusione e aumenta l'ansia, troverai sempre qualcosa che credi di non sapere.
  • Utilizza qualche tecnica di rilassamento: ti aiuterà a gestire meglio l'ansia.
  • Fatti accompagnare all’esame da un amico: ti aiuterà a distrarti e ad alleggerire l'ansia...ma non sceglierlo più ansioso di te!


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I DIVERSI STILI DI APPRENDIMENTO E LE MODALITÀ DI LAVORO: GESTIRE AL MEGLIO LE RISORSE
Non esiste un unico stile di apprendimento che sia efficace per tutti; conoscere quello che funziona meglio ci aiuterà ad impiegare al meglio le nostre risorse.

Possiamo raggruppare gli stili a seconda della componente sensoriale predominante: visiva, uditiva, sensoriale (modello VAK- visual, auditory, kinesthetic). 
  • Visiva:
    verbale: impari meglio leggendo? Utilizza appunti, stila elenchi, studia e leggi non a voce alta;
    non verbale: impari meglio guardando? Disegna tabelle, grafici, mappe, usa icolori, crea immagini mentali;
  • Uditiva:
    impari meglio ascoltando? Registra le lezioni e riascoltale, leggi a voce alta, ripeti a qualcuno;
  • Cinestesica:
    impari meglio facendo? Muoviti mentre studi, gesticola mentre ripeti.


Riflettiamo anche sulle modalità di lavoro: preferisci studiare da solo o in gruppo? In ogni caso, non trascurare le risorse che possono provenire dall'altra modalità.
  • se privilegi la modalità individuale, trova lo stesso il modo di confrontarti con le opinioni altrui; lavora in classe, affina le tue tecniche di ascolto.
  • se invece preferisci lavorare in gruppo, non tralasciare  la rielaborazione individuale di ciò che hai appreso; sintetizza ciò che hai studiato e metti a punto i tuoi propri strumenti di lavoro.

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PER CONCLUDERE...
Abbiamo fin qui presentato alcuni piccoli accorgimenti per gestire meglio l'ansia da esame, attraverso un miglior utilizzo di tempo e risorse.
Va comunque ricordato che quando l'ansia diviene troppa, ingestibile, paralizzante, potrebbe essere spia di un malessere ben più profondo dell'esame in sé. 
Pertanto in questi casi è opportuno chiedere aiuto e consultarsi con un professionista per contestualizzare questi segnali di allarme all'interno della propria storia di vita.

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Ansia e panico: ascoltare e comprendere i segnali del corpo

15/2/2013

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DEFINIAMO L'ANSIA
La parola ansia deriva dal latino “anxius”= agitazione e da “angere”= stringere forte, strangolare. Rollo May ci ricorda che in tedesco, "angst" significa soffocare nelle strettoie.
In psicologia si definisce come uno stato di tensione emotiva spesso accompagnato da sintomi  fisici quali sudorazione, tremore, palpitazioni ed aumento della frequenza cardiaca.
Si tratta di una reazione istintiva di difesa, un meccanismo di allarme che scatta in virtù dell’istinto di autoconservazione, anticipando un potenziale pericolo proveniente dall’ esterno o dall’ interno dell’individuo. Diventa patologica nel momento in cui diviene sproporzionata e va ad interferire con il normale svolgimento delle attività quotidiane, la realizzazione di obiettivi, il soddisfacimento di bisogni ed in generale con il benessere emotivo della persona.


I DISTURBI D'ANSIA SECONDO IL DSM-IV TR (2001)
Passiamo brevemente in rassegna la classificazione dei disturbi d'ansia:

  • disturbo di panico senza agorafobia: ricorrenti attacchi di panico inaspettati, riguardo ai quali vi è una preoccupazione persistente;
  • disturbo di panico con agorafobia*: sia ricorrenti attacchi di panico inaspettati che agorafobia;
  • agorafobia senza anamnesi di disturbo di panico: presenza di agorafobia e di sintomi tipo panico senza anamnesi di attacchi di panico inaspettati;
  • fobia specifica: ansia clinicamente significativa provocata dall’ esposizione ad un oggetto o ad una situazione temuti, che spesso determina condotte di evitamento;
  • fobia sociale: ansia clinicamente significativa provocata dall’ esposizione a certi tipi di situazioni o di prestazioni sociali, che spesso determina condotte di evitamento;
  • disturbo ossessivo-compulsivo: presenza di ossessioni (che causano ansia o disagio marcati) e/o compulsioni (che servono a neutralizzare l’ansia);
  • disturbo post-traumatico da stress ( post-traumatic stress disorder-PTSD): rivivere un trauma insieme a sintomi di aumento dell’attivazione e  evitamento degli stimoli associati a quell’ evento. Rimandiamo un approfondimento di tale disturbo ad una trattazione specifica successiva.
  • disturbo acuto da stress: sintomi simili a quelli del disturbo post-traumatico da stress che si verificano immediatamente (nel giro di un mese) a seguito di un evento estremamente traumatico;
  • disturbo d’ansia generalizzato: almeno 6 mesi di uno stato permanente di allarme senza che vi sia un reale pericolo e paura che succedano cose negative;
  • disturbo d’ansia dovuto ad una condizione medica generale: sintomi rilevanti di ansia ritenuti conseguenza fisiologica diretta di una condizione medica generale;
  • disturbo d’ansia indotto da sostanze: sintomi rilevanti di ansia ritenuti conseguenza fisiologica diretta dell’assunzione di droga, di un farmaco o dell’esposizione ad una tossina;
  • disturbo d’ansia non altrimenti specificato: disturbi con ansia o evitamento fobico rilevanti che non soddisfano i criteri per nessun specifico disturbo d’ansia o con sintomi che appaiono contraddittori.






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L'ATTACCO DI PANICO
Definiamo l'attacco di panico come un periodo preciso durante il quale vi è l'insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati con una sensazione di catastrofe imminente.
È descritto dalla comparsa improvvisa, nell’arco di 10 minuti al massimo, di almeno 4 tra questi sintomi:

  1. Palpitazioni, cardiopalmo, tachicardia
  2. Sudorazione
  3. Tremori
  4. Dispnea, sensazione di soffocamento
  5. Sensazione di asfissia
  6. Dolore o fastidio al petto
  7. Nausea o disturbi addominali
  8. Sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento
  9. Derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi)
  10. Paura di perdere il controllo o di impazzire
  11. Paura di morire
  12. Parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio)
  13. Brividi o vampate di calore

IL DISTURBO DA ATTACCHI DI PANICO (DAP)
Se gli attacchi di panico si ripetono nel tempo, siamo in presenza di un disturbo da attacchi di panico (DAP).
La persistenza del DAP spesso si associa a una serie di manifestazioni che aumentano la sofferenza dell’individuo:
• Ansia anticipatoria: può verificarsi a seguito del primo attacco e rappresenta un doloroso senso di attesa di un nuovo episodio. L’evento è così imprevedibile che la persona si domanda dove e quando avrà il prossimo attacco.
• Condotte di evitamento: la persona tende a evitare luoghi e/o situazioni in cui potrebbe sentirsi in pericolo.
• Dipendenza dagli altri: la paura di un nuovo attacco porta alla ricerca di vicinanza di persone che aiutano l’individuo a sentirsi al sicuro, fino a limitare l’indipendenza.
• Ipocondria: la convinzione che all’origine del disturbo ci sia una causa organica (più socialmente accettabile di una causa psicologica) provoca la paura di avere una malattia.
• Stato di allerta verso i segnali inviati dal proprio corpo: qualsiasi sintomo fisiologico legato allo stato dall’allerta viene interpretato come precursore di un nuovo attacco, andando ad accrescere ulteriormente tale stato e di conseguenza aumentando l’ansia, in un circolo vizioso.
• Depressione: gli attacchi provocano un senso di abbattimento e demoralizzazione crescente, la persona teme di non guarire più e si sente incompresa. 
• *Agorafobia: paura degli spazi aperti, di trovarsi intrappolati in un luogo e/o situazione in cui la fuga diverrebbe molto difficile o imbarazzante;

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IL CIRCOLO VIZIOSO DELL'ANSIA
Abbiamo detto come l'ansia si connetta ad una serie di altre manifestazioni che contribuiscono ad alimentarla, in una sorta di circolo vizioso. Si verifica il primo attacco, lasciando quel senso di malessere e paura di un nuovo episodio che abbiamo chiamato ansia anticipatoria. Inizia l'eccessiva attenzione riguardo ai segnali fisiologici di allerta: ogni segnale è interpretato come anticipatorio del prossimo attacco. L'ansia aumenta sempre di più, in una sorta di profezia autoavverante: è successo di nuovo, me lo sentivo.
Si attuano condotte di evitamento verso tutte quelle situazioni in cui potrebbe manifestarsi un nuovo attacco.
Proviamo a esemplificare: devo uscire di casa per andare ad una festa di compleanno...






















...e così via.




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COME AFFRONTARE ANSIA E PANICO?
Premessa: è sempre difficile ammettere di avere un problema di natura psicologica, soprattutto perché si teme di essere giudicati e stigmatizzati. Per questo motivo è molto frequente che chi soffre di attacchi di panico inizi una lunga trafila di indagini diagnostiche per accertarsi dell'origine biologica degli attacchi. Ovviamente per una buona diagnosi è sempre giusto interrogarsi su possibili cause organiche, ma una volta escluse, è importante lavorare sull'origine dell'ansia.
Spesso chi soffre di ansia ci chiede un medicinale, una pillolina magica che faccia sparire tutto, "normalizzando" il corpo: ci sono casi in cui un ansiolitico (previo parere medico) può essere un ausilio per il sintomo, ma è fondamentale lavorare sulle cause. 
Facciamo un altro esempio. Se ho la febbre alta, nell'urgenza dovrò fare in modo di abbassare la temperatura, ma sarà importante identificare l'origine di questo scompenso. La febbre, così come l'ansia, è un segnale che il corpo ci da per dirci che non sta bene, e in quanto tale va ascoltato; fa parte di quell'istinto di autoconservazione che ci tutela dai pericoli.

All'interno di un percorso psicologico paziente e terapeuta lavorano insieme per "ascoltare" l'ansia, dando un senso a questi segnali di allerta. Quale "pericolo" li ha innescati? Diventa cruciale collegarli con la storia dell'individuo, le sue relazioni, i suoi contesti.



BIBLIOGRAFIA
 -American Psychiatric Association (2001), DSM-IV-TR, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali - Text Revision, Masson, Milano;
- Sanavio E., Cornoldi C., Psicologia clinica, Il Mulino, Bologna, 2001
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